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ENRICO BOVONE: SULLA SOGLIA DELLA NOTTE
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Siena 1° maggio 2020  - Posted in : Storie maledette | Fonte: Simone Galeotti

Siena era cambiata da quel giorno del 1973, quando già da campione affermato si era infilato la canotta verde della Mens Sana con il numero 12. Se l’aspettava. Tutto era cambiato. Il mondo intero. Perfino lui. Certo, era invecchiato abbastanza bene, si era tenuto in forma con un minimo di attività fisica, solo il viso mostrava più anni di quanti in realtà ne avesse veramente. Colpa di una piega amara che gli distorceva la bocca. L’aveva continuamente nascosta sotto quella barba da rivoluzionario errante, così alto, così magro, eppure andando avanti si cominciava a notare fin troppo bene.

Era depresso Enrico, piegato da una tristezza strana che gl’impediva di valutare oggettivamente la piega degli eventi e pensare alle conseguenze di un gesto che lo mise di fronte a un nugolo di spettri, abili nel girare lenti intorno a lui, e lui nel vederli avrebbe voluto mostrare ai giovani che il tempo lavora troppo duro ai fianchi degli uomini, laggiù, solo, dentro la sua macchina solcata da deboli rivoli di pioggia, fermo, alle pendici di un bosco, dentro i rumori smorzati di animali lontani, fra lo stormire delle foglie e il cigolio dei rami accarezzati dal vento docile di primavera. Un bosco fatto apposta per pregare, puntellato di antiche chiese e conventi laddove si poteva percepire l’eco di esortazioni al bisbiglio di laudes sillabate. Sul sedile del passeggero c’era un foglio di quaderno su cui Enrico aveva scritto le sue ultime volontà, e, accanto al foglio, sopra un plaid ripiegato in quattro, c’era una Beretta calibro 3.75.

Enrico Bovone ormai viveva a Siena, alla periferia sud della città, di questa città così diffidente e refrattaria alla modernità ma che forse, evidentemente, quella luna che affoga ogni sera dietro il profilo gotico del Duomo lo aveva rapito al punto da restarci per sempre.
Enrico Bovone è il ritratto di un campione e di un uomo fuori dalle righe, non fosse altro perché mandava a quel paese un bel po’ di luoghi comuni sugli eroi – o presunti tali – dello sport. Uno di quei tipi che tutti frequentano per anni, ma che in realtà nessuno conosce veramente a fondo. E pare strano a dirsi per un uomo di due metri e dieci, tuttavia l’impressione era quella di trovarsi davanti a una sorta di gigante invisibile, nonostante sia stato protagonista nel basket italiano per oltre quindici anni. La sua è una storia senza lieto fine partita da Novi Ligure, in Piemonte, dove nacque nel 1946. Un ragazzo e un atleta problematico, di difficile collocazione. È molto ragionevole che nessuno sapesse bene dove piazzarlo quel lungagnone strano, che sorrideva raramente, affatto portato ai teatrini, ai proclami, chiuso in quella bolla d’aria perennemente annoiata.
Eppure, Enrico Bovone ha marcato un’epoca. Non fosse altro per il fatto di essere stato il primo pivot moderno del nostro basket che Aldo Giordani definì il “Gigantissimo”. Bovone un tranquillo studente quattordicenne che tale Nico Messina, insegnante di educazione fisica, scoprì indirizzandolo al basket, destinazione Tortona, in cui restò al centro di una singolare sfida automobilistica tra i dirigenti di Simmenthal Milano e Ignis Varese, accorsi per accaparrarsi la giovane promessa. Le relazioni narrano che Cesare Rubini rimase bloccato in un ingorgo autostradale e così Bovone finì a Varese dove vinse una Coppa delle Coppe nel 1967.

Bovone pareva l’uomo destinato a diventare il giocatore faro anche della nazionale, il leader, l’uomo simbolo di un movimento sportivo che ormai era esploso al pari dei Beatles e dei Rolling Stones. Invece Bovone si limitò al compitino senza mai assurgere a quel fenomeno che molti auspicavano, nonostante dal punto di vista tecnico migliorò notevolmente con il passare degli anni, costruendosi, tra l’altro, un gancio sotto canestro di rara bellezza.
Dopo Varese, il passaggio a Milano sponda All’Onestà, poi Udine dove nella stagione 1971-72 risulterà miglior marcatore e rimbalzista del campionato. E nel 1973, l’approdo a Siena nella Mens Sana guidata in panchina dal totem Ezio Cardaioli, per formare con l’americano Carl Johnson una coppia di lunghi fenomenale. Una volta chiusa la carriera da giocatore, nel 1979 vestirà per una stagione il ruolo di direttore sportivo della società senese, quanto bastò per rendersi conto che di basket ne aveva ormai abbastanza.
Il fatto è che a lui, per sua stessa ammissione, di fare sfracelli non importava un bel niente. Anzi, dirla tutta, senza quei duecentodieci centimetri che si portava dietro, Enrico Bovone non avrebbe mai messo piede in un palazzetto né da giocatore, né tantomeno da spettatore.

Dinoccolato, introverso, vagamente assente, dava l’idea di trovarsi in mezzo a un campo di basket più per caso che per volontà. Era accaduto, non voluto, un po’ come quei figli concepiti senza desiderio di procreare. Che segnasse un canestro o che gli venisse fischiato un fallo, contro o a favore, mostrava la solita faccia languorosa e impenetrabile. Oppure quando nel frastuono durante i time out se ne stava impalato ad ascoltare l’allenatore, le mani sui fianchi, una gamba leggermente piegata, con l’espressione di chi è terribilmente stufo e avrebbe voluto essere da tutt’altra parte.
Dove? a fare un lungo giro da solo in macchina, mentre fuori piove. Così rispose a una domanda su cosa gli piacesse fare fuori dal campo di pallacanestro.

Si sposerà e resterà a Siena, dove aprirà un’edicola in un paesino del circondario, dopodiché poco a poco l’oblio, il divorzio, le liti, l’allontanamento a modo suo, senza farsi notare, dagli amici, dal canto della Verbena, dal palazzetto.
Qualcuno ricorda di averlo visto negli ultimi giorni rispondere al saluto dei conoscenti con aria distratta, la mente già rivolta all’ ultimo atto di un’esistenza refrattaria.
La mattina di martedì 1° maggio 2001, un automobilista di passaggio notò un auto con lo sportello aperto e a terra un uomo sdraiato su un telo al limitare del bosco. Era lui, Enrico Bovone, si era suicidato sparandosi un colpo alla testa, nei pressi di un monastero dove le candele friggono la cera della devozione ma dove, fuori, negli anfratti di querce secolari, spregiudicati spiriti isterici ti fanno rimpiangere di essere ancora vivo, di rincorrere Bacco e Venere, invitandoti a sottrarti al presente.

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